Lemon B & B

Lemon B & B
Dadà e la casa di terra innevata

martedì 31 maggio 2011

Chi trova un amico trova un tesoro.

Credo che la cosa più difficile che ci sia da fare, è quella di dire a noi stessi "ho sbagliato" e poi domandare scusa alla persona che abbiamo ferito. Ammettere i propri errori e le proprie debolezze è un'esperienza che tutti dovrebbero fare, solo così si diventa uomini e donne.

Il giorno che ci siamo sposati, Amadio e io, c'è stata una piccola ma grande turbolenza, che, proprio perché era il giorno del mio matrimonio, mi sembrava gravissima, ricordo che uscendo dalla Pinacoteca, dopo aver detto sì, io avevo il volto tirato e già discutevo con lui. Ci sono i filmini e le foto a provare questo stato d'animo, poi c'è anche il riso che viene tirato, mio marito che mi guarda negli occhi e dal movimento delle labbra si capisce che mi dice "Scusa". E' da lì che il nostro matrimonio si è fortificato, la mia pelle si è distesa, e tutto è tornato come doveva essere.
Molte persone che conosco, si ritrovano invischiate in relazioni, giochi di coppia, matrimoni, fidanzamenti, in cui si fa a gara nel mostrarsi più forti. Gli uomini, sono convinti che solo mostrando i bicipiti e durezza hanno gli attributi. La sensibilità è a uso e consumo esclusivo delle donne, che ci si crogiolano e lì trovano una propria dimensione lontana da quella dei loro partner, rudi e così profondamente disumani.
Un uomo mediocre, è colui che non ammette di aver sbagliato.
Un uomo mediocre, è colui che continua a mentirsi e a mentire.
La menzogna è intima amica del finto orgoglio. Ignoranza, per lo più, alberga in questi animi.
Ma come si fa a sposare qualcuno soltanto per l'aspetto fisico? Come si fa poi a pentirsi e a dolersene?
Non essere se stessi, è un altra delle caratteristiche proprie di chi non sbaglia mai.
Fanno quei sorrisini, dicono quelle paroline così tanto banali, non hanno mai un'opinione accesa su qualcosa o qualcuno, e piano piano ti accorgi che in realtà una cosa interessa loro davvero, e quella cosa è se stessi.
E' strano no?, non sono loro stessi, ma sono interessati a loro stessi soltanto.
A cosa poi sono interessati?
Al mostrarsi sempre al di sopra delle loro possibilità: economiche, fisiche, lavorative, mentali.
Sono disegni fatti con gesso alla lavagna e poi malamente cancellati, senza contorni e senza consistenza, sbiaditi, mostrano qualcosa che potrebbe esserci e che non c'è mai stata.
La presunzione è un altro sintomo, loro dall'alto della propria torre di certezze fasulle, presumono.
Presumono di sapere, presumono di conoscere e presumono di vivere.
Cadaveri, zoombie.
Si puo' passare anche alla supponenza, ma lì siamo quasi alla patologia.
Baluardi inespugnabili, forzieri segreti, isole del tesoro, queste persone sono quelle che più ci faranno soffrire, sembreranno compassionevoli, sembreranno sensibili, sembreranno empatiche, sembreranno sincere e sembreranno anche intelligenti. A forza di risucchiare il prossimo, sono un Golem di altrui pezzi di carne.
Come fare? Una cartina al tornasole... occorrerebbe.
Diceva Gaber "Mio fratello era intelligentissimo, e io, sempre vicino a lui attaccato a lui, ma niente... l'intelligenza non s'attacca, la scarlattina sì".
Questi personaggi, sono untori, se li tocchi, quando gravitano attorno a te, ti trasmettono qualche malattia.
Ti tirano giù per la veste, vogliono che tu diventi come loro. E cercano in tutti i modi per fartici diventare.
Mele marce, contenitori impolverati.
Amo l'umiltà, dietro ad essa, non c'è mai nulla di quello sopra citato.
Amo la bontà, essa se vera, non ha mai lati oscuri.
Amo la crudeltà, anch'essa alberga in animi netti contraddistinti seppur negativi.
Non vi sopporto, stupidi, intelligentoni, codardi e ordinari.
Per poter cambiare il mondo, occorre trovare pepite, e avere la costanza di cercarle per tutta una vita.


lunedì 30 maggio 2011

Adamo ed Eva... storia di farfalle

Gustav Klimt
"Adamo ed Eva" (incompiuto)
1917-18, olio su tela
Per arrivare a casa mia, c'è da percorrere una strada sterrata rocambolesca, piena di imprevisti. E' facilissimo incontrare un fagiano, una civetta, un falco, un cinghiale, gatti selvatici, tassi e volpi. Anche la vegetazione è fiorente, a dire il vero, è fin troppo fiorente.
Spesso vengo pervasa da una nostalgia e da un senso di solitudine guardando quel verde, spesso penso di non poterne più, e altre di non poterne più fare a meno. Ma questa è una delle mie tante imprese mentali, una delle mie tante tentazioni alle quali non resisto, quello di deprimermi per cercare una forte emozione.
Ma, stavo dicendo che quando arrivi a casa, sei abbracciato da rami di biancospino, da siepi di alloro, da piante di ulivo, da querce tentacolari e poi se sta arrivando l'estate, proprio prima di parcheggiare, ti si presenta con una chioma disordinatissima dell'albero del gelso.
O l'albero delle more (Morus alba … me lo ha detto wikipedia).
E' un albero bellissimo, foglie e rami caotici, pieno di succulente bacche bianche. Quando dico che è pieno, non è così per dire, i suoi rami arrivano quasi a terra per il peso dei frutti.
Oggi sono venuti Marco e Desirée. Lei fa delle marmellate divine, e vedendo questa pianta così piena ci ha proposto di cogliere le more promettendoci qualche barattolo di marmellata. Sono dieci anni oramai che abito qui, e non mi sono mai accorta dell'albero del gelso.
E' un albero, molto discreto, quasi insignificante, per chi non guarda attentamente, come, cioè, l'ho guardato sempre io. E' un albero altero, maestoso e affidabile.
Quando ho tirato verso di me un ramo, sono cadute almeno venti palline bianche sulla mia testa e ad ognuno di noi è successa la stessa cosa.
Ho guardato per terra e ho visto che il vialetto era pieno di frutti caduti.
C'era un tappeto di more.
Ho provato tenerezza, per quella pianta che ogni anno ci donava i suoi frutti e noi non ne godevamo. Ho pensato a quanto sia stata inutile per così tanto tempo.
Li piangeva i suoi figli. Appena accarezzavi un ramo, il gelso piangeva le sue lacrime bianche succose e dolci.
I miei cani si sono cibati del suo succo. Ora capisco perché spesso sostassero sotto quella pianta. E oggi davanti a me tutte e tre le palline raccoglievano da terra quel nettare.
Abbiamo pensato di mettere sotto l'albero un telo, così come si fa per la raccolta delle olive.
Con un lunghissimo bastone mio marito batteva i rami delicatamente e subito grandinava.
Desirée era felicissima, pensava alle sue marmellate, e non riusciva a crederci che per farne almeno dieci chili è bastato battere quei rami per cinque minuti.
Mia figlia, chiedeva al padre se si potessero mangiare, e ha fatto merenda con le more, era anche lei molto felice.
I bachi da seta, vengono nutriti con le sue foglie.
Foglie di gelso a creare farfalle, frutti di gelso per le confetture di Desirée.
Quanto è prodiga questa pianta, anche la sua ombra rinfresca il viandante, cerca di essere utile, si offre dando tutta se stessa, ma le more che lei regala, non si possono trasportare, troppo delicate. Vanno mangiate in loco. E' generosa, ma vuole che, una volta che ti accorgi di lei, le resti vicino deve guardarti mentre usufruisci di lei. Questa è l'unica cosa che chiede, le basta la pioggia, le basta il sole, basta un piccolo gesto perché arrivino i suoi frutti nelle tue mani, ma non puoi trasportarli, devi stare sotto la sua ombra e mangiarli in sua compagnia.
E' stato, oggi pomeriggio, come tornare indietro nel tempo. Ho fatto un parallelismo che mi ha scaldato il cuore. Ho pensato a quel ragazzino che era innamorato di me, che c'era sempre accanto a me, che faceva tutto per me, ma non aveva il coraggio di dirmelo, e io non lo notavo, non mi rendevo conto, non sapevo neanche chi fosse. Una volta saputo del suo amore, seppi che il mondo era un posto davvero bello, che le persone erano incredibili, e che io pur non ricambiando il suo amore, avevo da lui tutto quello che non avrei mai pensato di ottenere.
Grazie gelso... grazie per le a-more.

sabato 28 maggio 2011

Il Maestro e il carboncino

"Nuovo 1" Francesco Di Tanna
Oggi, portavo Daphne a catechismo, quando davanti a una casa abbiamo letto un cartello: "Bastardi mi avete ammazzato il cane, vergognatevi".
Da queste parti essere un animale non è buona cosa. Ammazzano cani, gatti, volpi, fagiani, come se niente fosse.
Daphne ha letto il cartello sussurrando, poi silenzio. Poi, dopo un po': "mamma, questo è successo a Golia e a Davide?" le ho detto subito di no, ma sono certa che hanno fatto proprio quella fine.
Le ho spiegato che, Davide e Golia, erano andati ad abitare con le loro mogli... questa storiella l'ho dovuta inventare alla loro scomparsa. Daphne era piccolissima, io avevo il cuore in pena, in lutto, e lei a due anni viveva in simbiosi tutti i miei malesseri. Smise di parlare per due mesi, perché il suo Golia non c'era più. Ricordo che quando voleva parlare tirava forte le labbra con l'indice e il pollice e tremando e piangendo farfugliava: "Non riecco, a fare ussire le paloline".
Mannaggia che momenti, ci inventammo, il padre ed io una fuitina d'amore, e con il tempo e smorzando dentro me il dolore che provavo, Daphne ha ripreso a parlare.
Alla sua domanda di oggi pomeriggio mi sono impaurita, e subito ho riproposta la storiella della famiglia da accudire.
Poi ho pensato anche di dirle "Golia e Davide erano Jack Russel Terrier, erano cani di razza, è molto probabile che qualcuno innamorato di quel genere di cane se li sia portati via e li curi come noi stessi facevamo".
Il discorso ha ripreso dopo un po'. Golia lo trovai ai giardini pubblici che era piccolissimo, un cane di razza perso, stetti lì ad aspettare il proprietario per tre ore e poi lo portai a casa.
Divenne mio figlio, lo portavo ovunque, sembrava un soprammobile.
Una sera, non ero ancora sposata, vivevo ancora con i miei ad Ascoli, era da poco passata la mezzanotte, portavo Golia a fare i suoi bisognini, stavo percorrendo via Gaetano Spalvieri, quando mi sentii rincorrere, io accelerai e i passi accelerarono.
Mi girai e un uomo alto, da lontano mi disse "Signorina, un attimo, voglio parlare del suo cane".
Aveva anche lui un cane al guinzaglio, Jackie, era il professor Francesco Di Tanna, pittore, professore, uomo di animo eletto. Ma io, lì, non sapevo nulla di lui, avevo solo una gran paura...Perché ste cose capitano tutte a me, devo fare finta di nulla, e assecondarlo.
L'uomo aveva l'aspetto di un artista francese, basco in testa, jeans e camicia molto giovanile, aveva intorno ai settantanni, e un volto ricco di rughe e fascino, carisma e savoir faire.
"Il suo cane è meraviglioso, vorrei farlo accoppiare con la mia... vuole?"
E' normale no? Che uno all'una di notte ti rincorra perché vuole una cucciolata di Jack Russel.
Dissi di sì. Subito.
E portammo i nostri cani a godere della loro giovinezza in mezzo a prati, li facemmo divertire e provare le prime gioie del sesso.
Nel frattempo seppi di lui, del suo mondo, dei suoi quadri, del suo amore ancora giovane verso la moglie nonostante fossero passati tanti anni.
Un uomo d'altri tempi.
Di lì a poco nacquero sette Juck Russel, e io mi presi Davide, il più timido della cucciolata.
Dissi un giorno al professore, che mi sarei sposata, si congratulò con me, era raggiante.
Ci vedemmo poco in quel periodo, io ero sempre indaffarata per i preparativi, un giorno portando Golia a fare la solita passeggiatina lo rincontrai, mi disse che aveva deciso di dare una personale ad Ascoli. Ero incredula, sapevo quanto odiasse, queste mostre prugne e pere. Ma non osai ricordarglielo, mi chiese se volevo andare con lui a casa a scegliere alcune delle tele di presentazione. Gli ricordai la mia ignoranza nel campo dell'arte, mi disse che dovevo scegliere quelle più belle seguendo la mia anima.
Incredibile, aveva la casa piena di quadri, erano appesi ovunque, non ho più visto pareti così, intrise di colori e significato.
Le guardai tutte, erano tutte sue. Mi fece vedere anche i disegni con il carboncino. Uno su tutti mi commosse. Era il profilo del corpo di una donna che era ritratta nel sonno. Aveva una mano penzoloni e il lenzuolo le risaltava il fianco destro e una ciocca di capelli era davanti agli occhi.
Era la moglie, la mattina dopo del loro matrimonio. Lei dormiva e lui la ritraeva. che forza quel quadro... ma no, mi disse quello non l'avrebbe esposto, troppo personale, troppo suo.
Guardai di nuovo tutte quelle pareti e ne scelsi uno che avevo già scelto entrando. Una città futura, intrisa di sogni, non nitida, senza contorni, delle macchie loquaci del deserto che ognuno di noi vive.
Lo indicai, si alzò, lo tolse dal chiodo, la moglie pulì il vetro con una pezzolina, e mi disse: Questo è per il tuo matrimonio... abbi una vita felice.
Ero a bocca aperta, la mostra personale era solo un trucchetto, per farmi scegliere in tutta tranquillità il mio regalo di nozze. Oggi, entrando in casa, il quadro del professore è il primo a sinistra... lo guardo tantissime volte al giorno.
Fu felicissimo di sapere che mia figlia si chiamava come la protagonista del primo libro scritto: Daphni e Chloe, me lo disse tantissime volte di leggerlo, non sono riuscita mai a trovarlo.
Arrivate davanti alla chiesa ho detto... "Golia non c'è più, Davide neanche, ma ora abbiamo le Palline" e Dadà, ridendo mi ha dato un bacetto ed è entrata in chiesa.
Ferma al volante ho continuato... "Il professore, anche, non c'è più... ma Jackie e la moglie sono ancora insieme... era quello che avrebbe voluto se avesse mai dovuto scegliere".

Il saluto romano

Oggi a casa, la tre, il mio gestore di telefonia, mi ha mandato l'Iphone4, ero eccitatissima mentre aprivo quel plico così piccolo che prometteva al suo interno, il mondo intero.
Debbo dire che è stata dura, cominciando dal capire come si aprisse il vano per la sim.
Poi, sono stata presa da sconforto, quando l'operatore mi ha detto che dovevo sincronizzare la rubrica della mia vecchia usim.
Bah! Che cazzo devo fare mo'?
Dopo un paio d'ore ho capito, se mi impegno, alla fine capisco!
Infine sono riuscita ad accenderlo, perché avevo acquisito l'Itunes sul pc, era un gioco a premi, una caccia al tesoro.
Mi sono ritrovata uno schermone, con un sacco di iconine.
Quale sarà quella per telefonare?
Eppure io percepivo di avere il mondo lì a portata di mano, e proprio mentre percepivo questo, mi sono fatta una domanda.
Ma, alla fine, noi con tutti sti telefoni intelligenti, con queste diavolerie tecnologiche, cosa diavolo facciamo? Comunichiamo?
Sì, mettiamo il link su fb, straziami ma di baci saziami, con foto allegata di donna discinta su un letto, per far arrapare quei quattro forsennati che smanettano davanti al pc.
Oppure, l'altra profonda comunicazione...A Iride piace questo elemento, intrisa di significato.
A cosa mi serve a me l'Iphone 4 addirittura il 4?
Mio nonno, anche aveva necessità di comunicare, Nannì, amico di un inglese il signor Smith.
Un grande partigiano mio nonno, olio di ricino, manganellate, armi in casa, cacciato dalla sice, perché, non voleva salutare di mattina una gigantografia della crapa pelata.
Alberi segati per tutta la strada che porta a Roccafluvione per impedire l'arrivo dei tedeschi.
Un rivoluzionario, un uomo infinitamente pericoloso da tenere sotto stretta sorveglianza, così diceva la sua fedina penale, ci raccontò mio fratello avvocato che aveva potuto consultarla in tribunale. E lui, Nannì, capitano dei partigiani, aveva il ruolo del comunicatore, doveva portare a conoscenza di informazioni top secret, i compagni toscani, umbri, emiliani.
Non c'aveva l'Iphone 4, nonno, andava in bicicletta.
Andava in bicicletta a Firenze, per cercare di parlare con chi doveva. Andava in bicicletta in Umbria, per cercare di salvare compagni, da qualche imboscata. Andava in bicicletta, lontano o vicino per recuperare armi e munizioni.
E cosa stranissima, senza sms, riusciva a trovarsi all'ora e nel luogo stabilito, riusciva ad incontrare chi doveva incontrare e soprattutto riuscivano anche a darsi informazioni decisive per la loro vita, e per quella di milioni di italiani.
Il mondo tra le dita, io con il mio Iphone pieno di iconine colorate e innocue. Mondo fermo dentro al cortile di facebook, e qualche comunità virtuale... di frustrati e senza palle come me.
La libertà in groppa a una bicicletta, con pedali rotti, raggi flessi e sella scorticata, mio nonno, con un piccolo grande sogno nel cuore, seguito a prezzo anche della vita.
Per stasera va così, poi, sicuramente, domani, andrò in un centro tre, capirò tutto, e farò la figa con lo smartphone in borsa pronta a linkare e a taggare.
Che fallace che sono! Abbiate pietà per me! :)

giovedì 26 maggio 2011

Il tempo non esiste

Le due di notte, ti scrivo perché posso, solo così raccontarti. Non so se spedirò mai questa lettera mille volte ricominciata, non so se mai leggerai quello che forse tra poco scriverò.
Ho letto tutta la Recerche du temp perdu, l'ho riletta più volte in questi balzelli di tempo. Ho letto Caligola di Camus, che poi da queste parti hanno dato a teatro e sono andata a vederlo.
Vedi ho seguito i tuoi consigli, e tutto e niente è cambiato.
Che sapore ha l'aria di Erice d'inverno? E poi, tokio go, alla fine, io non l'ho capito tutto.
Come non ho capito molto di quello che mi dicevi.
Parlavi una lingua strana. Lontana, come lontano era il paesaggio che mi mostravi.
Parlavi la lingua raffinata di chi è abituato a domandarsi sempre.
Non potevo e non posso immaginare che esista una persona come te, ma è vero che ci siamo conosciuti?
Sembrava, in quei giorni torridi d'estate, che ogni volta che parlassi tu aprissi un libro, e leggessi.
Invece raccontavi il tuo mondo interiore, scusa, se sono stata poco loquace, ma ero troppo intenta a capire quello che mi avevi appena detto, quello che volevi significare, a imparare, a godere dei tuoi virtuosismi lessicali e mentali.
La processione, quella notte di mezza estate, il nugolo di persone che arrivava a piedi. Vedemmo sorgere la processione, dal buio della notte camminavano in preghiera, e all'alba arrivarono davanti alla chiesa che sembrava un minareto.
E mi raccontavi della laicità della tua terra, della sacralità dei tuoi conterranei, con convinzione, con amore, con odio... ma non saprei mai ridire quello che dicevi ne assaporavo solo l'essenza.
Mi hai spiegato il contrappunto. Abbiamo guardato il tempio greco e mi hai spiegato perché fu costruito proprio lì, il tempio, la costruzione umana, la materia e sotto di esso il burrone, il precipizio della natura... il contrappunto delle costruzioni greche. Quasi a voler sfidare la natura, forse a volerla sfidare proprio, ecco di cosa è capace l'uomo, si innalza più di quanto la natura riesca a sprofondare. A te divinità: un tempio contrappunto di ciò che hai creato, quasi a voler canzonare le capacità divine.
Avevo mal di testa, e cercavo di capire quello che dicevi.
E' che tu non hai dentro te lo spazio, dicevi.
Troppa storia nella tua città, anche gli spazi sono dedicati alla scansione del tempo. Colline lavorate a seconda delle stagioni, niente lasciato alla forza brutale della natura. Nulla assorbito dallo spazio senza il maledetto tempo.
La Quintana, rievocazione storica, il carnevale a voler rimarcare il tempo e il presente, il travertino, le chiese, i san pietrini... c'è troppo tempo dentro te... hai mal di testa perché qui c'è troppo spazio.
Ho pensato molto a questa affermazione, e ho capito cosa significa non alzare mai gli occhi perché si conosce già lo spazio attorno, significa non avere l'imprevisto della mancanza di quotidianità, vuol dire non essere stupefatti, vuol dire livellarsi all'andamento lento delle stagioni, degli anni, dei lustri... come se il tempo controllasse ogni nostro movimento, ancora meno liberi, meno sognanti e troppo inquieti.
Parlavi del compiacimento, ogni frase detta da qualcuno lo era.
Tutti alla ricerca di compiacimento o di autocompiacimento.
E ho imparato a quanto davvero avessimo tutti sempre bisogno di incoraggiamento, anche in frasi nascoste, in atteggiamenti contrari, in ogni essere umano c'è sempre la necessità di essere capiti, scusati e amati dagli altri.
Di questo occorre liberarsi, per essere davvero uomini.
Odio il compiacimento, quando si ricorre ad esso, non si è più uomini, si diventa laidi, finti, ignoranti e avidi.
Se ci si nutre di compiacimento, poi, non si fa altro che volerne.
Termina lì l'intelligenza umana... dove inizia il compiacimento.
Oggi a distanza di anni, capisco cosa significasse questo tuo punto fermo.
Significa rimanere se stessi dinanzi a complimenti, significa non perdere di vista i propri obiettivi, significa non scendere a compromessi, significa passare dall'autocompiacimento alla stima verso se stessi. Non c'è da fidarsi di chi cerca compiacimento... come avevi ragione.
Parlasti di poesia, della brutalità delle sue parole. Mi raccontasti di come fosse simile a un percorso di montagna, che ad ogni curva, ti lascia senza fiato il paesaggio che ti si presenta dinanzi. Parlasti di come fosse spontanea e vera, e come di contrappunto fosse invece falso e costruito il poeta.
La poesia non ha bisogno di interpreti... il poeta sì. Ha bisogno di interpretare gli altri, ha bisogno di compiacersi, ha bisogno di sudditi e proseliti e più ne ha bisogno e più la poesia che esce dalla sua mente è vera. Odiavi i poeti... avrei voluto chiedertelo “una poetessa ti ha straziato l'anima?” sarei sembrata banale e non lo feci mai.
Ogni volta che pensavo di dirti qualcosa la centellinavo, la raffinavo e la rendevo originale, ma quasi mai ebbi il coraggio di dirtela.
Spesso, ora, quando scrivo utilizzo la stessa tecnica...la penna può anche cancellare.
La strapperò questa mia, anzi farò di peggio la posterò in un blog, termine della tua tanto odiata tecnologia, navigherà in rete, termine da te tanto odiato da farlo diventare obsoleto.
Sarebbe compiacente questa lettera ai tuoi occhi? O ti compiaceresti a leggerla?
Non importa, proprio per non disturbare, non te la invierò.
Thanks for all!


Airbag e ammortizzatori (genitori e figli)

Mi piacerebbe, stasera, descrivere.
Potrei cominciare da un posacenere, fermo sopra un tavolo, è di colore nero, credo che sia fatto di pietra lavica, originale, a tratti se illuminato restituisce un bagliore insolito. Dentro c'è cenere e quattro mozziconi di sigaretta.
E' la stessa persona ad averlo utilizzato, tutte e quattro le sigarette sono spente allo stesso modo, con vigore, sono arricciolate, come quando si ammazzano i vermi quelli bianchi cicciotti che quasi si raggomitolano sù se stessi.
Mentre analizzo il posacenere, arriva una mano a sgrullare la cenere di un'altra sigaretta che fuma tra le dita di un uomo.
E' un uomo, che sta digitando al computer lettere, a formare parole, a formare frasi, da rileggere e da far leggere.
E' collegato in rete, sta scrivendo un curriculum vitae, e nel frattempo la cenere dentro quel posacenere di pietra lavica aumenta. Come aumenta il fumo intorno agli occhi e ai capelli dell'uomo che, ora fermo, guarda lo schermo.
Non è più giovane, ha tantissime rughe di espressione in volto.
Le labbra sono all'ingiù e la sua tristezza si propaga a quel posacenere quando con apatia e vigore spegne la sua quinta sigaretta. Rimane fermo con il dito indice sopra al filtro oramai piegatissimo, dal peso della sua mano.
Torna a scrivere, ha moltissime esprienze lavorative, ha lavorato presso una impresa di costruzioni, ha lavorato come cameriere per moltissimi mesi, ha trovato occupazione in diverse fabbriche. Quando scrive il nome dell'ultima e il periodo, riaccende il vizio.
E' dal 2010 che non lavora più, leggo la parola cassaintegrazione, e la sigaretta è ferma tra le dita e fra le labbra, il fumo arriccia l'occhio destro e si infila nel tubo lacrimario... non piange.
Sgrulla di nuovo la sigaretta nel suo portacenere di pietra lavica, chissà forse l'avrà riportato dall'ultima vacanza in Sicilia, si passa la mano libera, la destra, tra i capelli e torna a scrivere.
Il problema diventa enorme, come si riempie la casella "aspirazioni"?
Il fumo che esce dai polmoni intasati, racconta che di aspirazioni non ce ne sono più, racconta che di sogni ne ha visti infrangere troppi, di soddisfare bisogni ha bisogno, il tempo delle aspirazioni è andato, non rientrano le aspirazioni tra le sue priorità, eppure una dritta gliela avevano data, doveva scrivere un curriculum fresco, giovane, pieno di positività.
Il vestito nuovo per la comunione della figlia, la revisione dell'auto della moglie, la spesa mensile entro sabato... non c'è più latte.
Ricordarsi di chiedere a mamma se ha da prestarmi 200 euro per il dentista, glieli ridarò appena possibile.
La mano ha ripreso il pacchetto di sigarette in mano, le conta, sono soltanto tre, una ora, per finire la stesura del curriculum, una prima di andare a dormire, e una domattina.
Dopo l'esitazione, la paglia brucia di nuovo.
E la pietra lavica torna a fare il proprio lavoro... il posacenere!
Soltanto io, non ho un lavoro.
Pensa l'uomo.
Soltanto noi, a quarantacinque anni ci ritroviamo, a dover chiedere se un futuro ci sarà, ci ritroviamo, a sperare in una telefonata, a bussare di nuovo ad ogni inferriata per sapere se posto c'è.
Un posto per noi, insieme ai giovani precari.
Questo esercito di compilatori di curricula, questo esercito che ha bisogno di ammortizzatori sociali, come mendicanti col cappello in mano, ci sembra quasi di fingere la nostra indigenza.
Non siamo finti ciechi agli angoli della strada, ma ci consolano con le questue senza lavorare.
Eppure avevo dato tutto al mio lavoro. Mi ci ero dedicato, era il mio posto in società, ero riconosciuto come lavoratore.
Come si fa a nascondere il mio stato di cassaintegrato?
Cosa c'è di creativo, di remunerativo e di elevato nell'essere quella parola con tante esse e una g di fianco ad una r?
La sigaretta è quasi finita, il posacenere di pietra lavica, raccoglie le ultime briciole di un vizio che quasi sembra una virtù.
Nel momento dello spegnimento di quella sigaretta nella convessità di quel posacenere, trovano posto le domande, le risposte, i lamenti e la paura di un uomo che nacque nei favolosi anni della rinascita e che purtroppo è diventato adulto nei favolosi anni della finta abbondanza, della finta ricrescita, della finta piena occupazione e della tv puttana.
Un bluff, ecco cos'è la descrizione di un oggetto... è un bluff per parlare d'altro!

martedì 24 maggio 2011

Senza rimpianger la mia credulità...(F.D.A.)

Aveva lo sguardo mezzo, era grigio come un cielo di novembre, era mezzo perché non ce la faceva a guardarlo tutto, quell'universo inafferrabile che le turbinava accanto. Ricordo come muoveva le dita, colli di cigno, aveva dita che sembravano gambe di ballerine classiche. Mentre fumava, il suo sguardo si dileguava ad ogni tirata, e le dita saltellavano insieme al turbinio del fumo.
Dormivamo insieme in una stanza della Vela ad Urbino. Compravamo spesso patatine e prosecco, e facevamo cena. Mentre l'alcol saliva, cadevano giù le nostre vesti, e ci raccontavamo tutto.
Si credeva brutta, era bellissima.
Era convinta di non meritare nulla e nessuno. La schiaffeggiai una volta per questo e le urlai addosso...le lacrime azzurre arrivarono alle labbra rosse e secche.
Dividemmo il panino a metà quando i soldi erano finiti.
Andammo in cerca di sigarette, nella sala mensa, quando c'erano solo i soldi per il biglietto di ritorno.
Ascoltammo racconti intrisi di sesso e al buio in camera ci chiedevamo come sarebbe stata la nostra prima volta.
Guardammo insieme "il grande freddo" e "il bacio della donna ragno".
Parlavamo fino a sanguinare di ogni sentimento si celasse dentro di noi.
Era la mia amica fragile.
Era il mio contrappunto.
Un'anima affine, un'affinità elettiva, una sorer.
Levava l'invidia con immensa sacralità... preparava il piatto dell'acqua e toccava la mia testa "è questa che più ti invidiano" diceva e poi accarezzava il viso, il collo le braccia, il seno e le gambe... poi quel collo di cigno del dito indice faceva gocciolare quell'olio nell'acqua: il tonfo sordo e la goccia che si spargeva. "Dobbiamo farne tantissime altre... sei piena di invidia"
Lo diceva seriosa, ci credevamo il tempo di lavare il piatto.
Facevamo l'autostop, di notte e di giorno, con la pioggia e con la neve.
C'era una tormenta di neve a Urbino quel giorno, tornavamo da lezione e nessuno passava e nessuno si fermava... lei alzò gli occhi al cielo e chiese aiuto alla divinità.
All'orizzonte vedemmo una macchina, piano piano rallentò, si fermò e lei entrò per prima... la sentivo ridere, quando entrai in macchina una tonaca occupava il posto di guida. Esaudita.
Una notte, sentii dei rumori in bagno, c'era la luce accesa e la porta era aperta, mi alzai e la vidi guardarsi allo specchio, era un'altra persona, stava parlando a bassa voce, ebbi paura la chiamai, non rispose, urlai il suo nome e il suo volto tornò quello di sempre mi guardò e mi disse "era il mio spirito guida, stavamo parlando".
Aveva uno strano modo di rivolgersi alle persone, era una timida sfrontata, e aveva uno stranissimo modo di avvalorare le sue idee.
Parlava, parlava senza sosta di un argomento, lo sviscerava, convinta del suo dire e concludeva il tutto con una grande pausa di silenzio e poi domandava seraficamente "o no?"
Preparammo insieme esami, bevemmo fino a stare male e a piangere, ci completammo e organizzamo il nostro futuro.
Chiudemmo la porta in faccia al più grande clarinettista del mondo "Severino Gazzelloni", non lo riconoscemmo, profane di musica, pensavamo fosse un vecchio balordo.
Non riconoscemmo il tizio che ci caricò ad Urbino e che ci portò fino a Pesaro, se non dopo aver preso il treno, era Ivan Graziani. "Come si sarà sentito?" mi domandava continuamente.
Era con me, quando mi rovinavo la vita al fianco di un uomo che solo dolore mi regalò, era accanto a me quando riesumai cadaveri dal di dentro, e io ero con lei a sconfiggere le sue paure, le sue timidezze e i suoi pudori.
Amica fragile, mi piacerebbe, una sera di inverno, sentire aprire la vetrata di casa, guardare l'uscio, e in mezzo al fumo rotolante del camino intravedere la tua sagoma, la tua fisionomia.
Mi piacerebbe, presentarti mia figlia Daphne, ti piacerebbe lo sò, mi piacerebbe farti conoscere la mia vita, tutta, raccontarti tutto quello che c'è stato da quando ci allontanammo, vorrei sapere che cosa ne è stato di te, come sei diventata, cosa ti agita e cosa è rimasto in fondo a quello sguardo mezzo.
Dicesti, "Con Iride ho chiuso, dice tutto, troppo in faccia, non pensa mai alla sofferenza che cagiona", mi piacerebbe sapere che dopo tanti anni, rimpiangi la mia lealtà, mi piacerebbe sapere che anche tu, come me, nei momenti di solitudine alzi il pollice e ripercorri quelle strade di Urbino con me, mi piacerebbe riabbracciarti esoterica amica.
Sappi che, ogni volta che ascolto "amico fragile", il mio pensiero vola a te. Lontana, vicina, lontana e con le dita a collo di cigno.
Gli aperitivi al bar Centrale, le mascherate a Carnevale, il sabato sera a villa Pcciò, il giro di do e una sorsata di vino novello. Alle nove di sera l'appuntamento era a metà strada, tra la clinica San Marco e via Serafino Cellini, sopra la vespa io e tu in piedi a raccontarmi tutto quello che non avremmo potuto dirci dormendo.
Mi manchi Franca, eppure con quel nome avresti dovuto e potuto apprezzarmi!

lunedì 23 maggio 2011

La protagonista e l'antagonista

Oggi, una persona mi ha parlato di sé. Mi capita spesso che mi raccontino la loro vita. Chezia dice che lo fanno perché sono io a condizionarli, mi dice che già da come mi posiziono mentre qualcuno parla, significa che ho tempo e voglia di ascoltarli.
Un giorno l'accompagnai all'Aquila, e in un bar ci fermammo a prendere un caffè, eravamo Pina, lei ed io, ebbene, la signora del bar cominciò a raccontare di quanto le donne fossero svantaggiate nel lavoro, col fatto di dover anche crescere i figli e tirare avanti la casa, insomma il solito discorso verissimo, trito e ritrito. Nel silenzio dietro di me avvertii una presenza, era una ragazza che stava aspettando di ordinare. Ebbene non appena mi giro, lei mi guarda e mi sorride, io ricambio il saluto e poi non ricordo più, lei mi ha raccontato la violenza del padre nell'educarla, i ceffoni, le punizioni atroci e poi i suoi errori da adolescente e da donna, la sua scelta di un uomo che era uguale al padre, che la picchiava e picchiava i suoi figli, il dolore e il tormento di quegli anni vissuti come in prigione, e la rinascita grazie alla sua forza, all'allontanamento del carnefice e al suo nuovo amore.
"Iride, un'ora e mezza per prendere un caffè, ma come dobbiamo fare con te?" Ero stravolta, un pezzo di vetro si era conficcato dentro le pieghe della mia essenza, e stavo ancora soffrendo insieme a quella sconosciuta.
Mi capita spesso, anche quando non vorrei, ma in fondo ha ragione Chezia, io voglio sempre. Mi interessa troppo l'essere umano. Mi piace da morire conoscerne la storia, lo faccio per puro egoismo, per me stessa non v'è dubbio e poi, se qualche beneficio arriva all'altro è solo per puro caso.
Mi sono persa, ero ad oggi. Una persona che lavora con me mi ha confidato la sua esperienza matrimoniale.
Mi ha raccontato del marito e dei di lui tradimenti, mi ha raccontato di quanto fosse stronzo, senza rispetto verso di lei e le sue figlie. Mi raccontava il disprezzo, l'odio e dagli occhi usciva l'amore.
Mentre tornavo a casa, mi domandavo se quella storia fosse un semplice romanzetto d'appendice o se avesse tutte le capacità per diventare letteratura.
Poi ho ripercorso le sue espressioni, il suo dolore, i suoi occhi e le sue labbra. Mi ricordo che a un certo punto, quando le ho detto "tu sai perfettamente cosa dovresti fare", mi ha detto "STRONZA" e aveva le lacrime agli occhi. Ho ripercorso, dicevo, le sue parole le frasi celate, il contesto di quell'amore insano, o impuro, o comodo e mi sono detta che dipende solo da chi lo ascolta, che diventi lettaratura. Dipende dal peso che hanno i nostri pensieri riferiti a qualsiasi persona e alla sua vita, dipende dal nostro giudizio o pregiudizio, l'ergere l'altro o l'altrui vita a opera massima o a vita insulsa.
Mi dicevo in macchina, che il mondo era pieno di vittime e di carnefici, che lei era troppo felice di essere considerata vittima, e altrettanto felice che di lui si pensasse fosse il carnefice. Ma poi ho pensato che quando le ho detto "non fare la vittima, a quarantanni sto personaggio non rende" lei era felice che io sapessi, era contenta che avessi capito i loro giochetti per non crescere, per non portare a saturazione un rapporto che oramai dovrebbe essere maturo. Hanno paura di essere soli con una vita dietro e davanti. Hanno difficoltà a capire che un rapporto non può essere stanco o obsoleto se si è vivi, se si ama la vita se si è pieni di interessi.
Era un romanzo d'appendice? O era letteratura? Mi piacerebbe vedere la persona che oggi mi parlava, soggiogata da questo giochetto trito e ritrito, rinascere a nuova vita grazie alle carezze impavide di un tagliaboschi, una nuova Lady Chatterley.
Ho provato a dirglielo, ma non mi ha capita.
"Cosa devo fare?, uscire la sera con le quattro sfigate di separate, trascurando le mie figlie?"
Non era questo il livello che volevo lei raggiungesse.
Lady Chatterley, dovresti diventare, mia cara. Elevarti dalla tua condizione di misera donna frustrata non amata, con la paura di dirselo, e abbassarti tra le siepi, in mezzo al verde, nel rudere di un uomo che vuole te, soltanto te.
L'amante di Lady Chatterley dovresti trovare, farlo tuo e incontrare finalmente te stessa... nel brivido dell'imprevisto, nel candido e passionale abbraccio di anime affamate e corpi sudati.
E' finalmente diventato letteratura... e io ho conosciuto di persona Lady Chatterley.

domenica 22 maggio 2011

Ultimo tango a Uscerno

Era una notte di calda estate. Avevo ricci intrecciati che finivano sulle spalle e lentamente le accarazzevano. Brividi e caldo. La situazione ideale per un Daiquiri ghiacciato e extra dry, come quelli che piacevano a Ernest Hemingway. "di questi doppi ghiacciati, potrei berne fino a morire": diceva a Constante Ribalugue, el Roi de los coteleros dell'Avana.
Ordinai, bevvi a piccoli sorsi e in piccoli gesti... avevo davanti a me solo le sue mani.
Lente, carezzevoli e poderose stringevano il boston ghiacciato e come se volesse protrarre fino allo spasimo la mia attesa, faceva colare dallo strainer il liquido-mondo che di lì a poco avrei condotto alle labbra.
Per ordinarne un altro posai i miei occhi dentro i suoi, e lì dentro ci vidi un mondo inesplorato.
Erano larghi, grandi, come se tutto contenessero. Erano belli, verdi, come se mai nulla potessero mai celare.
In quegli anni ero una che pretendeva tutto e subito, ero giovane.
E lo volli! Per le sue mani, per i suoi occhi e per il suo mondo.
Suggei da lui ogni tipo di respiro. Mi feci raccontare senza mai stancarmi
Lo udii sudato gemere e raccontare di Londra, gli lavai la schiena mentre mi raccontava di Parigi, lo baciai mentre mi narrava la sua Germania.
Viaggiavo con lui in posti diversi e in momenti diversi.
Mi aggrappai così forte da non poter più respirare.
Preparava barattoli di cozze e sul vetro scriveva "for my first love".
Preparava la scenografia per le nostre serate accendendo lampade, esaudendo ogni mio desiderio.
Con il sapore di Fragole al porto in bocca, mi disse "Ti amo", con l'odore sulle mani di un lime tagliato accarezzò le mie convessità e fui sua.
Passarono mesi, durarono anni, e il suo fascino cresceva.
Il carisma in un uomo, va cercato. Un uomo carismatico, non ti lascerà mai sola. Un uomo carismatico ha il mistero dentro, quello del non detto, quello del "ho già capito".
Volevo che mi prendesse le braccia e lo faceva. Volevo che mi parlasse di noi e lo faceva, volevo che mi amasse e lo faceva, volevo amarlo e me lo lasciava fare. Senza mai chiedergli nulla, mi ha sempre dato tutto.
Ho cercato l'inferno e l'ho avuto, ho cercato la sommità e l'ho raggiunta. Anche la monotonia ha un ruolo in chi ama disperatamente, fortemente e tenacemente.
Il silenzio finalmente non fu solitudine, e mi guardai profondamente, la mia mano dentro la sua.
Mi accorsi di chi fossi per poi dimenticarlo... non era più utile.
Lo trovai sveglio accanto a me che contava i miei ricci, lo guardai dormire il sonno dell'esserci.
Lo rimproverai, mi rimproverò, lo detestai, mi detestò, lo allontanai, mi allontanò... non cessò mai quel sentimento che tutto rinfoca, non perse mai i connotati il suo volto, e le sue braccia erano solo le sue.
Oggi danzando un tango vertiginoso, sentivo la sua coscia poderosa farmi strada nei passi, oggi in un tango appassionato mi faceva vorticare e mi amava e lo amavo, persa tra le sue braccia, anche oggi mio sono innamorata di nuovo di lui.
Ogni giorno mi rinnamoro di lui. Amadio.

sabato 21 maggio 2011

INDIGNATA!

Siamo in guerra. Devo dire che ho impiegato molto tempo a capirlo, ma oramai ne sono certa, siamo in guerra.
Qualcuno autorevole moltissimi anni fa disse “non so come si combatterà la terza guerra mondiale, ma so come si combatterà la quarta: con le clave”. Quell'uomo aveva intuito tutto. Non lo sappiamo neanche noi in che modo siamo in guerra, ma di certo lo siamo.
Innanzitutto i potenti della terra, sanno benissimo meglio di noi tutti, che la guerra oggi non va combattuta con le armi nucleari o batteriologiche, sanno che il loro paese, e la loro immagine verrebbero troppo insozzate. I vari attentati alle cosiddette democrazie occidentali, sono soltanto dei piccoli strumenti da utilizzare all'uopo per piangersi addosso e spostare il tiro, per non far guardare, per non far indagare, per nascondere, celare.
La guerra porta soldi, aumenta le ricchezze, e soggioga le menti di coloro che sono stretta manovalanza, e non sa di esserlo.
Hitler, usò per primo quest'arma, quella dell'ignoranza, per attuare i suoi loschi e orridi piani.
Le menti da soggiogare, oggi sono infinite, le hanno preparate con minuzia, con precisione, le hanno preparate ad arte. Menti da soggiogare, perché incapaci di avere un giudizio, di esprimerlo.
Menti pronte a recepire le parole di altri e farsi condizionare, è stata questa la preparazione più difficile di tutti i tempi.
Non si trattava di addestrare cavalieri senza macchia e senza peccato, non si trattava di arruolare gente d'onore, in grado di servire il popolo. Occorrevano, invece menti avulse dalla possibilità di critica. Come fare? Semplice col mezzo che più di ogni altro ci condiziona e ci destabilizza: la televisione.
Così hanno educato il loro esercito. Così hanno tolto il pensiero, così hanno insegnato l'ignoranza.
C'è una possibilità, quella di negare tutto ciò che si vede, o di spegnere il televisore. Ma oramai ogni individuo che ci alita accanto è pronto per il progetto, non ha spento tv e non dissente oramai più.
Quindi non ci si fida più del nostro vicino, non ci si riunisce insieme per parlare di qualcosa. Non si fa comunità. Essere singoli individui, è quello che i potenti della terra hanno voluto per noi. Singoli individui, senza cervello, convinti di essere unici, ma massificati ai loro occhi.
E' stato un grande progetto portato a termine magistralmente.
L'ignoranza è la sovrana delle menti, menti che però sono convinte di conoscere.
E' un meccanismo perverso, duro da digerire, che mai nessuno potrà contrastare.
Si scioglieranno i ghiacciai, ci sarà la desertificazione, milioni di persone moriranno di stenti, sarà un grandissimo olocausto. Non si combatterà in nome della Cina, dell'America, dell'Europa, dell'India, ma in nome dei loro mercati delle loro piazze affari delle loro compagnie di assicurazione e delle loro banche. In nome delle loro discariche, in nome dei loro prodotti, in nome dei loro scambi, della loro merda.
E con in corpo, massicce dosi di “soma”, noi saremo l'esercito degli ignoranti, dei nullatenenti, dei sudditi-proseliti...
INDIGNATI, dovremmo essere, non indifferenti, ma INDIGNATI.
INDIGNAMOCI... per dinci!

San Marco e la provincia!

Ad Ascoli non si fa altro, mangi con amici, fai una passeggiata in centro, porti il cane a spasso, porti figli a scuola, vai a lavorare, non si fa altro... l'argomento è sempre lo stesso, la morte di Milena e il pianoro di San Marco. Come se, anche l'orrore, la morte e l'efferatezza dessero lustro. In provincia, si parla, si sparla, si rovinano reputazioni, si innalzano personaggi tristi a ranghi inimagginabili, si offre il di dietro alla politica, e ci si fregia di qualunque cosa, anche di una morte brutale, anche di un crimine sanguinario. L'importante è che siamo in TV. E' incredibile! E poi tutti RIS, tutti che sanno tutto: dell'esame autoptico, delle intercettazioni satellitari e di quelle ambientali, sanno dei cani molecolari, delle celle di San Marco e dei relativi agganci, sanno riconoscere tracce e danno soluzioni del caso. Si diceva che l'Italia fosse un paese di allenatori, è sbagliato, sbagliatissimo, siamo un paese di criminologi, detective, medici e soprattutto avvocati. La nostra provincetta, dopo tanti anni passati a guardarsi Rozzi in Tv che parlava dell'Ascoli Calcio, aveva bisogno di pubblicità, ed ecco qua, siamo di nuovo lì ogni giorno, non solo la domenica sera al processo (quello di Biscardi). Poi siamo anche grotteschi, abbiamo subito trovato la barzelletta del caso: si organizzano autobus per una gita a San Marco, il viaggio è gratis pagato dai mariti! Esilarante vero? Oppure la battuta del marito alla moglie: ti porto a San Marco uno di sti giorni, cara... Arguta battuta, satira!
Sarà che io Ascoli la amo, sarà che è stata lo sfondo di ogni mia giornata, sarà che la conosco così bene da sgamarla a primo colpo, ma mi fa incazzare.
Guai a chi ne parla male, mi dispiace troppo. Ma, davvero, è troppo provincia, troppo indietro, troppo bigotta. E' un concentrato di saccenteria e ignoranza, è insieme santa e puttana, è atea e credente e soprattutto nel 2011, è ancora classista.
Si conoscono i cognomi di famiglie bene (sto bene è poi da capire... cosa sognificherà?) e poi ne si additano i rampolli. Si vive di luce riflessa se si è alla loro ombra. Si nominano gli eredi e affini fino al sesto grado. Vorrei vederli fuori da Ascoli, sti personaggi chi sono?... vorrei vederli alle prese con una metropoli che non si chiede per niente interessata di chi sei figlio o a quale casta appartieni, li voglio vedere senza quel nepotismo carico di sussieguosi salamelecchi, voglio vederli alle prese con qualcuno che se ne infischia del loro cognome. Puo' sembrare che ad Ascoli si faccia altro, forse lo si fa, ma per adesso si parla di Melania, del pianoro di San Marco e di intercettazioni ambientali, in qualsiasi luogo, a qualsiasi ora e soprattutto in qualsiasi casta sociale.

venerdì 20 maggio 2011

La stella cometa che adesso casca.

Chi è lo scemo del villaggio? Spesso in una comunità viene additato un personaggio, e poi lo si schernisce e alla fine lo si guarda con aggiunta di scrollata di spalle.
Mi è capitato un paio di volte, da quando sono al mondo, di trovarmi di fronte allo scemo del villaggio, senza sapere che lo fosse, senza pregiudizio alcuno e ho trovato in entrambi i casi uomini ricchi di conoscenza, di sapere, fuori dal comune, sopra le righe, originali e arricchenti.
Non so se in passato fosse così, ma mi vien voglia di asserire che oggi, lo scemo del villaggio è colui-colei che CONOSCE.
Quando ho conosciuto Luciano, lo chiamerò così ma non è questo il suo nome, mi ha affascinato subito il suo modo di guardare gli altri, sempre con aria sognante, pensante.
Aveva occhi tristi, dietro ad occhiali spessi, un braccio a toccare sempre l'altro come se si sentisse solo senza quel contatto. Si sentiva solo senza se stesso.
Parlava pacatamente con lunghe pause, e certo è che per chi ha fretta non è il conversatore ideale.
Sprigionava spesso parole cariche, dense che bastavano già da sole, senza comporre frasi.
Non aveva orpelli, era essenziale, un uomo post moderno, post globale, un reduce, un sopravvissuto a quello a cui noi non sopravviveremo.
Parlai molto con lui, e imparai moltissime cose, di nuove e di vecchie. Sviscerammo insieme esperienze nostre e altrui. Non aveva mai commenti banali, era sempre originale non per edonismo; per esistenzialismo.
"Avevo le chiavi del bagno, li accompagnai a cambiarsi, e fecero l'amore lì nel bagno, con me dietro la porta".
"Ho buttato giù due righe" erano cinquanta pagine, di scene per un corto. Suggestive immagini, che non occorreva più neanche riprendere con una telecamera, minuziose, doviziose.
Mani che piluccavano cibo, collo di donna a una scrivania, occhi talmente vicini all'obiettivo da farli entrare dentro chi guarda. Donna comoda al divano, che legge un libro, le piace è affascinata dal personaggio, dalla descrizione di un ambiente, e si sorprende a trovarsi in altra dimensione, in un passato mai avvenuto, che mai più arriverà.
Luciano, rideva soltanto quando parlava con mia figlia Daphne, la guardava negli occhi e parlava con lei la voce dei bambini, si capivano, la sua personalità cambiava in maniera radicale e in una frazione di attimo tornava a parlare con me, a guardare il mondo degli adulti e riassumeva i suoi lineamenti strani, originali, diversi.
Ho avuto paura, e ho smesso di frequentarlo.
Non ho avuto paura perché era lo scemo del villaggio, ho avuto paura come chi ha paura perché sa che perderà. Ho avuto paura di affondare la mia completa esistenza nel marasma degli animi straziati. Ho avuto paura di imparare a guardarmi sempre dentro, a non smettere mai, a prendere sempre tutto sul serio. Ho avuto paura e con la stessa semplicità con la quale lui si è donato a me, si è allontanato. Senza dovergli dire, urlare, sussurrare nulla. Si è allontanato toccandosi il braccio con il braccio, per non sentirsi tanto solo.
Ieri ho incontrato un altro uomo, che scemo del villaggio lo è solo per gli imbecilli del villaggio.
Lui sa di essere visto così, un po' matto, che non ci sta tutto, lo sa perfettamente e credo che non gli faccia male affatto.
Anzi se la ride, si beffa di chi ha già tirato le somme su di lui.
Mi ha raccontato in poche ore, cosa è stata per gli americani la Silicon Valley, mi ha raccontato di Google, mi ha spiegato l'elettronica e l'informatica. Aveva gioia negli occhi, studia più di otto ore al giorno questi argomenti e non è mai sazio.
Lo scemo del villaggio, è una persona ricca di interessi, di conoscenza e di cultura. Facevo domande, mi interessavo e avrei voluto sapere ancora.
Non credo si dia così facilmente, anzi, sono anni che lo conosco, e mai avrei immaginato dentro quest'uomo, una simile voglia di vivere e di dubitare.
Intelligente, geniale, sorprendente.
Tristemente, tutto il giorno, ho pensato a quante persone ho avuto occasione di sfiorare senza mai conoscerle veramente. Ho pensato ai talenti che ognuno di noi possiede. A come restano sopiti, a come non vengano espressi e a come li cancelliamo comprando e mentendo.
Ho avuto lacrime per Dino Campana, lo splendido matto del villaggio... la stella cometa che adesso casca. Ho avuto amore per Alda Merini, per Sylvia Plath e come uno squarcio ho capito che Dio si rifugia proprio dove non v'è certezza, che l'infinito è dentro ciò che di finito non ha nulla.
Ho capito che, hai voglia a metterti giacca e cravatta, o a farti interventi di chirurgia estetica, botulini, capi sartoriali, sei solo un simbolo di precarietà, di obsolescenza di finitudine e di nullezza.

giovedì 19 maggio 2011

An Harvey wall banger, please!

Che cos'è un drink! Un cocktail. Una miscela. Qualcosa di speciale, creato ad hoc. Ce ne sono diversi, sono quelli riconosciuti dall'IBA, e ognuno di loro è da somministrare a seconda della fascia oraria, della stagione, del momento e delle persone.
Non ci si improvvisa barman, non è frequentando un corsetto che ci si può definire barman.
Il barman è il proprietario del castello, lui solo tiene la chiave, solo lui sa cosa tolleri e di cosa hai bisogno.
Un barman riconosce le bottiglie al tatto, crea il drink con una agilità e sofisticatezza ineguali.
Essere barman è un modo di essere.
Le ricette sono quelle, non altre. Le ricette e i sapori sono uguali a New York, come a Milano e a Singapore.
Lo shaker in mano ad un vero barman risplende della sua lucentezza e della sua fredezza per pochi istanti, quelli che occorrono per freddare il liquido creato.
Il flavouring agent è centellinato nelle ricette internazionali, è questione di grammi.
Non cambia mai il sapore di un Daiquiri, come, è sempre lo stesso, il Martini cocktail.
Dietro i nomi delle ricette dei cocktail internazionali ci sono storie di uomini, di letteratura e di terre lontane.
La creazione del cocktail è il misto tra gli elementi della natura.
Il barman conosce alla perfezione la creazione del whisky e del wiskey, il barman sa perfettamente cos'è la parte che va agli angeli dei cognac pregiati francesi, conosce il gin, la vodka, l'armagnac, il sour mash e il rum.
Sa proprio riconoscerne dall'odore dove e come sono stati invecchiati, e prima di comporre la miscela, intona le note di quel cocktail che andrà a creare.
Non ci si improvvisa Barman, ma in Italia lo si fa.
Lo si diventa con un corsetto regionale, o provinciale. Lo si diventa senza mai aver lavorato in un american bar, lo si diventa senza conoscere le lingue, lo si diventa senza sapere nulla di quello che io ho appena citato.
In Italia si può fare tutto, l'importante è che lo si faccia alla carlona. Non c'è bisogno di artisti, di creativi, di professionisti. Altrimenti, poi, chi guarderebbe la monnezza in tv?
A chi basterebbero i salari da fame? Se la gente cominciasse a capire dove e quando si mangia e si beve davvero bene, capirebbe anche che non è possibile farlo con venti euro, o trenta. E allora non basterebbero più le miserie propinateci in tv con i saltelli in padella. Polli d'allevamento c'hanno voluto e noi lo siamo diventati. Poi possiamo sempre dire di essere Barman, Cuochi, Informatici, Matematici.
Silicon Valley, non sta in Italia, chi se ne fotte e il Cosmopolitan lo bevono nei locali di lusso quelle di sex on the city, e il manhattan lo beve al burlesque cristina aguilera. Basta guardare un film americano, per accorgersi di non aver mai bevuto un cocktail degno di questo nome. Ma noi famo a accontentasse... siamo bravissimi in questo.
Mio marito è un capobarman Iba e Aibes... quante storie mi ha raccontato.
Ha smesso di sognare un'Italia come la Londra che lo ha preparato. E le sue informazioni e conoscenze pregiate le tiene chiuse dentro di sé. Che dolore!

mercoledì 18 maggio 2011

Hand, foot and mouth

Mani, piedi e bocca. Bocca, mani e piedi. Oggi ho scoperto una nuova malattia esantematica. Si chiama così, come una canzoncina da unire alla battuta delle mani. Mani... piedi... bocca!
L'ho scoperta grazie a Chezia, la mia figliastra, che sta studiando psicologia all'Aquila ed è in tirocinio presso un asilo. Mi ha chiamato stamamattina travolta dalla disperazione... "ho i piedi pieni di pustole" mi ha confidato. Le facevano male, non riusciva neanche a camminare, e da stamattina è cominciato il suo calvario ospedaliero e poi, solo un'ora fa dal dermatologo abbiamo avuto risposta..."mani e piedi". Il suo bimbo preferito gliel'ha trasmessa, il decorso è benigno e siamo tutti molto tranquilli. Ma è stato bello l'avvicendamento di telefonate fantastiche e fantasiose che abbiamo avuto Chezia ed io. Ho ipotizzato la sesta malattia fino allo sfogo di Sant'Antonio. Mi sentivo un medico plurispecializzato e tranquillizzavo la mia figliastra proponendole mele (avvelenate!). Sì, glielo chiedo sempre a Chezia: vuoi una mela? Ma lei rifiuta sempre, eppure gliele offro coloratissime piene di polpa, succose, insomma di quelle che non puo' non venirti voglia di morderle. Eppure lei rifiuta!
E' stupendo il rapporto che abbiamo instaurato.
All'inizio ci odiavamo, poi ci cercavamo, poi litigavamo, poi ci azzannavamo, e alla fine ci siamo trovate, lì in quel posto che si chiama lealtà, in quel posto che si chiama dignità, in quel posto che solo il dolore ti fa conoscere, in quel luogo dove tutto si deve dire, dove tutto deve venir fuori per non tornarci più. Non sono una madre per lei, non sono una amica (mi dice che sono vecchia), non sono una sorella. Sono la moglie del padre, la madre della sorella. Lei è la figlia di mio marito e la sorella di mia figlia. Poi c'è altro ancora, che non so spiegare, che è viscerale, che è vicinanza è empatia è conoscenza l'una dell'altra, è pazienza certosina dall'una e dall'altra parte. C'ho pensato tante volte, la mia storia con mio marito è stata difficilissima, ma una volta superati i problemi classici di un uomo che si è separato, ho trovato una dimensione che è solo nostra. Mia, di Chezia, di Amadio e di Daphne. Una dimensione, che solo grazie a questi ostacoli iniziali, abbiamo solo noi. Il mio legame con Chezia, trascende ogni tipo di rapporto famigliare, è molto di più. Non c'è legame di sangue, ma è come se ci fosse stata una trasfusione vicendevole. Spesso mi capita di "sentire" i suoi malesseri. Senza che parli, guardandola negli occhi, capisco ciò che la rende felice, ciò che ama o che detesta. Chezia ha una bellissima voce, una voce intelligente, che arriva da una testa che pensa forse troppo, continuamente.
Siamo andate un mesetto fa a mangiare la pizza con delle mie amiche, mamme di bimbe che praticano danza classica con Daphne. Chezia era tornata dall'Aquila ed è venuta con noi. Eravamo a cena e più di una volta ha preso la parola e ha detto ciò che pensava. Stavamo tutte a bocca aperta, ascoltavamo rapite quella voce suadente ricca di sgnificati. E io mi sentivo orgogliosa di questa mia figliastra, di questa mia figlia di mio marito, di questa mia sorella di mia figlia.
Questo, credo che riesca a spiegare ciò che ci lega. Il suo messaggio per il compimento del mio 40.mo anno di vita:

tanti tanti auguri matrigna...non pensare agli anta, perché dentro di te sei sempre un enta con la maturità di un ento :-) Ti voglio bene... senza te la mia vita sarebbe diversa! grazie per tutto quello che sei stata e sempre sarai... un bacio, tua Chezia
Io mi invidio da sola! (Volete una mela?)

martedì 17 maggio 2011

Il cane, la neve, il confessionale.

Non capisco: allora Berlusconi deve abbandonare la casa? Chi lo ha nominato? Comunque uscito da lì avrà il futuro spianato se lo saprà gestire... potrebbe diventare famoso: un attore, un cantante, un prezzemolino, fare le serate in discoteca, potrebbe anche andare ospite allo show dei record!
E poi, non ho capito ancora... ma chi resta nella casa? C'è qualcuno che con i soldi della vincita ci aprirà un ristorante, o un attività commerciale? Oppure utilizzeranno quei soldi per auto blu, per case extra lusso, insomma per tornare ad utilizzare potere?
Scusate, ma davvero ho il cervello in loop, non riesco più a capire, quando c'è uno sceneggiato in tv o il tg, non riesco più a capire quando c'è un film o due personaggi pubblici che parlano di politica, non riesco a capire se c'è l'isola o se ce la fanno sognare.
Sono idiota lo so, e ne prendo atto, ma perché non c'è più il giornale della sera?
Perché non riesco più a seguire una trama di un film?
Ho sempre le idee confuse e mentre mi domando cosa ci fa Vespa in una puntata dei RIS, già non capisco perché il film di Ascanio Celestini non lo danno mai in tv. Ho visto "qualunquemente" l'altro giorno, ero insieme a mio marito, era divertente mi avevano detto, e mio marito rideva di gusto. Io sono andata in bagno a vomitare. Non capisco mai niente, vedete? Vomitavo sulla tazza del cesso e pensavo a quanto fosse disgustoso quel film, la cosa più reale che abbia mai visto in tv negli ultimi anni. Un film drammatico altro che leggero. Un film violento, noir, un thriller mozzafiato. Girato sulle mie spalle, sulle spalle di mia figlia e di mio marito, dei miei amici più cari. Un film che parla di me e di quello che vivo quotidianamente in Italia. Bravissimo l'attore, meravigliosa la sceneggiatura... ma che cazzo ci sta da ridere in quel film?
Mi è capitato altre due volte di vomitare mentre mi cibavo d'arte. Una volta guardando un altro film boicottatissimo: Videocrazy... se volete stare un po' male non dovete far altro che guardarlo. Un documentario, sulla nostra italietta, sulle veline e sui personaggi incredibili dei reality show e della finta cultura nazional popolare, un film sul presidente. Poi l'altra volta che ho vomitato è stato mentre leggevo il libro "L'amore contro di Mauro Covacich", la storia malata di una relazione sentimentale tra un uomo dello spurgo e una prostituta. Ma il peggio non sono le loro professioni, il peggio è l'olio di cadavere che trasuda nelle loro esperienze, nel loro vissuto nel loro modo di parlare e vivere questa vita.
Intanto, ferma sulle pagine centrali del libro di Coetzee "il maestro di Pietroburgo", a domandarmi se un cane morirà travolto da una bufera di neve perché qualcuno lo ha lasciato attaccato a una catena troppo corta, mi chiedo, ancora, il significato macabro delle elezioni, mi domando se Berlusconi andrà in confessionale e mi domando se davvero al referendum tutti risponderemo sì... ma si fa presto a dimenticare e il Giappone è lontanissimo.

lunedì 16 maggio 2011

S = k in W di Boltzmann "la scoperta della formula della vita"

Riordinare è uno modus vivendi. Riordinare è nel DNA, riordinare è una vita vissuta in un certo modo. A me manca il pensiero del riordino, figuriamoci quando poi il pensiero in me diventa azione. Succede ogni anno bisestile, anche ogni due. Riordinando, in questio giorni di ferie, ho riesumato in casa oggetti, parole, disegni e libri che avevo dimenticato. Allora, ho capito che riordinare significa anche cancellare il presente, senza mai innalzarlo al rango di ricordo. Riodinio, è portare all'obsolescenza ricordi che sono da poco stati presente. I maccheroni dentro a un bicchiere lasciati lì da mia figlia per dar da mangiare alle sue bambole, è un ricordo che, se avessi riordinato non avrei mai potuto ricordare. Mi sono commossa, pensando al modo di camminare e di atteggiarsi di mia figlia mentre prepara il pranzo alle sue ospiti, il suo incedere a sedere dritto tra il camino e il divano, dove tutte le bamboline di diversa fattezza e grandezza aspettano il cibo sapientemente preparato. Il suo fare gentile, mentre si rivolge alle commensali, mi riecheggia nelle orecchie... non ho riordinato e ho trovato Dadà di due anni fa. Se avessi riordinato, come tutti gli uomini si aspettano che faccia una donna, non avrei trovato più i bigliettini amorevoli di mio marito che andando via prima del mio rientro lascia la tovaglia apparecchiata, la cena da riscaldare e un bigliettino. Ti amo, basta solo che accendi il gas e fai riscaldare è tutto pronto. Grazie al mio disordine quei bigliettini, erano lì, uno nel Monopoli di mia figlia, e l'altro in mezzo alle collane di bassissima bigiotteria. Se fossi ordinata, i miei capelli sarebbero lisci, se fossi ordinata non avrei la ricrescita bianca sulle tempie, se fossi ordinata avrei le idee chiare, le avrei sempre avute. Ho preferito vivere i miei tempi, le mie inquietudini, le mie solitudini dentro il caos che mi ha generata. Non ho mai lasciato il liquido amniotico, non ho mai superato il big bang, il caos è il mio elemento e, come il mare che ruba il colore al cielo, mi avvicino in punta di piedi a chi la mia natura non ha, per poter respirare, per potere contare a volte su di me, per poter dimenticare, per poter vivere, a volte, facendo finta. Spero che arrivi l'estate e i suoi cieli infiniti, spero che guardando in alto, come ogni anno, possa trovare la quiete che dentro i disegni delle stelle si cela... dopo il caos so con certezza che c'è l'equilibrio vorrei tanto trovarlo.

mercoledì 11 maggio 2011

Molte volte, mi capita di domandare a chi vive accanto a me: "E poi? che ti ha detto?", oppure domando ancora "E lui che ha detto?". Spesso a queste domande la risposta è la medesima: "Niente". Ma quanto mi fa inalberare sta cosa. Com'è possibile che uno o una con un cervello normodotato, non risponda niente. E poi ancora mi dico: "Ma perché la persona a cui ho fatto la domanda non si è un po' prodigata con me, dicendomi cosa ha risposto, o ancora, non se lo sia inventato?" Che c'è di male?, meglio un'inventata storia che una vita nulla, meglio il fantasy che il vuoto. Perché non c'è in giro anima viva, in grado di raccontare storie?, perché non c'è in giro anima viva, capace di rispondere, a un affronto, a un rimprovero, a una carognata, a una domanda con PAROLE,  fossero anche parolacce. Niente. Niente. Niente. A furia di niente si finisce in coma farmacologico. Allora siamo morti-viventi o vivi-morenti? Possibile che non ci sia alternativa? Possibile che nessuno racconti se stesso con un urlo, con una fandonia, con un amore, con un'amicizia, con un odio?
Che significato ha la risposta?
Nessuno, non significa quasi mai la risposta. Ma a chi domanda, fa venire in mente altre domande, stuzzica la propensione al dubbio. Vorrei un etto di prosciutto... niente prosciutto, solo occhi vacui! Come reagiremmo se non riuscissimo ad avere ciò che vogliamo? eh, lì sarebbe tutto diverso vero? Avere è troppo importante, se domandiamo un quadriband, vogliamo un telefonino, e vogliamo sapere tutto ciò che c'è da sapere, se vogliamo un full led, lo vogliamo e vogliamo la frequenza, il full hd e se possibile anche il commesso per una notte a spiegarne il funzionamento.
Mi dispiace il tuo comportamento, mi fa soffrire, non ce la faccio più, come faremo ad andare avanti... "E lui, che ti ha detto?" Niente, non dice niente, non dicono mai niente.
Neppur si muove! neppur si muoverà mai!